01.04.2020 – In questi giorni di vita surreale, tra le tante riflessioni condivise sul web, ce n’è una che mi è piaciuta in particolare, e che mi ha convinto a scrivere qualcosa:            
Se pensate che gli artisti siano inutili, provate a passare la quarantena senza musica, libri, film, poesia e teatro
(dalla pagina FB “Applaudire con i piedi”).

Una frase diretta, senza toni polemici o di sfida, che contiene in sé una verità innegabile; è come una bandiera di pace che sventola, e che – forse senza volerlo – rimanda alla descrizione degli artisti pronunciata da un Santo dei nostri giorni:
Chi avverte in sé la “scintilla” della vocazione artistica — di poeta, di scrittore, di pittore, di scultore, di architetto, di musicista, di attore… — avverte al tempo stesso l’obbligo di non sprecare questo talento, ma di svilupparlo, per metterlo a servizio del prossimo e di tutta l’umanità”.

(a cura di Italo Mastrolia)

Il 4 aprile 1999 Papa Wojtyla scrisse queste parole nella sua Lettera agli artisti di tutto il mondo.
Gli artisti hanno sempre ascoltato quel richiamo, perché è questa la loro missione, specialmente quando – come in questo periodo – si tratta di rendere un servizio all’umanità intera.

Mi limito a riflettere sui musicisti.

Sappiamo che cosa comporti essere un musicista in Italia, ad ogni livello. Nell’immaginario comune, il musicista, anche se professionista (e anche se di “musica colta”), è spesso considerato una sorta di “hobbista”, è qualcuno che dedica il proprio tempo alla propria passione per diletto. Non importa se ha investito anni della propria vita nello studio dello strumento, se ha affrontato sacrifici e costi per il suo acquisto, o se è stato costretto a spostarsi infinite volte per la frequenza delle scuole musicali.

Eppure la musica è sempre stata considerata uno degli indicatori culturali dell’identità nazionale ed italiana, con chiari ed evidenti riconoscimenti nelle dinamiche della società e nelle scelte politiche: il senso di identità nazionale passa attraverso le espressioni culturali  (l’apprezzamento per la bellezza e l’emotività) delle quali la musica ha sempre avuto il ruolo primario.

Con tutta evidenza, non è bastato aver introdotto lo studio della musica nelle scuole (materia considerata “cuscinetto” dalle istituzioni e dagli stessi studenti), oppure aver istituito i licei musicali; neppure aver equiparato – solo nel 2018 – i titoli del circuito AFAM (Alta formazione artistica, musicale e coreutica) a quelli universitari. La cultura musicale, obiettivamente, non ha lo stesso riconoscimento riservato ad ogni altra disciplina.

Che cosa dire, allora di coloro che praticano generi musicali “non colti”?
La crisi discografica ha portato anche gli artisti più noti a rivedere i propri percorsi artistici; figuriamoci quanto possa accadere per i c.d. “emergenti” o per gli “amatoriali”, o per coloro che, sebbene costretti ad accettare le misere offerte economiche degli organizzatori, non hanno incisivi ed adeguati strumenti per la tutela dei loro crediti e delle pretese previdenziali.

L’auspicio è che i musicisti – prima ancora della società – prendano coscienza di essere i “mediatori qualificati” tra le opere d’arte e il pubblico, espressione culturale di quell’arte educativa che garantisce la crescita della persona e lo sviluppo della comunità.Serve rivedere radicalmente (a livello politico e giuridico) la generale tutela di coloro che garantiscono un servizio alla crescita culturale dell’Italia; forse in questo difficile momento si dovrà dare un senso alle parole di quel Santo polacco il quale, parlando in italiano, ricordava che … «proprio mentre obbediscono al loro estro, nella realizzazione di opere veramente valide e belle, essi [gli artisti] non solo arricchiscono il patrimonio culturale di ciascuna nazione e dell’intera umanità, ma rendono anche un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune
(Lettera agli artisti, Papa Giovanni Paolo II, citata).